Il rifugio della Bestia, un racconto per Halloween

Il rifugio della Bestia


Di Francesca Mariucci


Vorrei poter dire alla mia nuova compagna di classe che il suo cane sia solo scappato, ma forse non è andata proprio così.

Questa non l’ho mai raccontata a nessuno.

Dicono tutti che certe creature non esistano. Chi ci crede invece pensa che vengano fuori solo quando sono nascosti dalle tenebre. Invece posso assicurarvi che quello che ho visto era reale ed era pieno giorno!

Leo era passato a chiamarmi come ogni mattina da quando era finita la scuola. Era stato bocciato e cercava di tenersi alla larga da casa dall’alba al tramonto. Tirava una brutta aria in quelle quattro mura e scappava appena poteva, allo stesso tempo non aveva pace da nessuna parte, ogni giorno cercava di ficcarsi in imprese assurde e anche quel giorno aveva già un piano.

«Muoviti, inforca la bici che oggi andiamo al fiume!», mi gridò col suo nuovo vocione.

«Al fiume?», ero stupito, «è parecchio lontano!».

In realtà non è così distante. In passato è capitato che andassimo a giocare fin là perché sapevamo che nessuno ci avrebbe trovato. Era una specie di rifugio, andare al fiume. Conoscevamo bene alcuni sentieri che giravano intorno al ponte e passavamo ore a tirare sassi dalla piccola spiaggia che il fiume modificava ogni anno. Avevamo i nostri posti preferiti: la barca blu abbandonata sopra il campo, la baracca puzzolente, il fico delle arrampicate. Non riconoscevamo ancora i pericoli, era solo divertente e soprattutto segreto. Questa volta invece ero preoccupato, provai a far ragionare Leo.

«Non mi pare una grande idea, dopo tutti questi giorni di acquazzoni il fiume sarà in piena da far paura!». Non ne avevo proprio voglia ma Leo non la pensava allo stesso modo.

«Piantala di frignare, sarà ancora meglio!», detto questo accadde la solita cosa: lui che gira la bici, parte e io che lo inseguo con il fiatone.

Quella mattina l’aria era molto umida e non c’era da stupirsi. Nei giorni precedenti eravamo stati bersagliati dal cielo con ripetute bombe d’acqua e quel giorno era comparso un caldo afoso che appiccicava addosso sia gli abiti sia i capelli, come se piovesse ancora. Io faticavo a respirare e stare dietro alle pedalate furiose di Leo era una tortura. Finalmente arrivammo al ponte.

«È in piena!», esclamai appena ripresi fiato, non mi piaceva e lo sapevo già prima di partire.

«Fighissimo!» gridò lui, «il fiume sembra un serpentone grasso ma velocissimo, guarda com’è gonfio, pochi metri e stavolta arriva alla catapecchia», e indicò la vecchia baracca puzzolente. Iniziò proprio a fissarla. “Ecco che comincia a escogitare qualcosa” pensai.

Da bambini la usavamo per le prove di coraggio. Dovevamo almeno provare a entrare in quella costruzione pericolante, fatta di tavole di legno e lamiere varie assemblate insieme. Avremmo dovuto affrontare prima la puzza poi la bestia che pensavamo lì si rifugiasse. Va detto che non ci siamo mai entrati davvero, comunque ci avvicinavamo il più possibile e cantavamo una sorta di formula magica per farci forza, inventata proprio da noi, era bella:


Nella tana tutta nera ci sarà quella pantera,

Con i denti assai affilati, con gli artigli lunghi e duri

Una volta dentro entrati, non si è più tanto sicuri.

Ma ti auguro, col cuore, di superar prima l’odore.

Bestia! Bestia che sei dentro, io ti avverto, ora entro!


La Bestia non l’abbiamo mai vista ma conoscevamo la leggenda metropolitana. Si narra, infatti, che un animale feroce scappato da un circo o dalla casa di qualcuno si aggirasse dalle nostre parti. Ci credono ancora in molti perché alcuni episodi accaduti lo potrebbero confermare.

Iniziò tutto con la sparizione dei due cani di un personaggio importante della città, poco amato, e si pensò prima a un rapimento poi a una cattiveria, fatto sta che non furono mai più ritrovati. Ne parlarono anche i giornali locali. Da quel momento iniziarono a sparire molti animali, soprattutto cani e gatti, ma si videro in giro anche meno scoiattoli e animali selvatici comuni. I giornali parlarono ancora di queste sparizioni e qualcuno asserì di aver visto una pantera aggirarsi di notte vicino alle abitazioni di chi aveva animali in giardino. Non fu trovata alcuna prova, però col tempo diminuirono le persone che tenevano animali da cortile o in giardino e la leggenda restò tale. Siccome nella baracca c’era sempre quell’odore terribile e dentro, durante le ricerche dei primi due cani, ci avevano trovato delle ossa di animali e delle piume di qualche piccione, per noi diventò subito il rifugio della Bestia, anche se in realtà nessuno l’aveva mai vista davvero. Fine della storia, fino a quel momento.

«Andiamo!» gridò Leo.

Non mi restò che seguirlo lungo il sentiero in mezzo all’erba alta, fino a un paio di metri dalla capanna. Mi fermò con il braccio e mi fece segno di stare in silenzio poi all’improvviso iniziò a gridare a squarciagola.

«Bestia, Bestia che sei dentro!».

Mi fece prendere un colpo. Poi un tonfo proveniente dall'interno ci strozzò il respiro in gola. Proveniva proprio dalla baracca. Seguirono dei rumori bruschi contro le assi di legno, poi alcuni rantoli e sbuffi che iniziarono a farsi sentire sempre più forte. Avevamo svegliato qualcuno o qualcosa. Mi trasformai in un blocco di granito.

«Non ti chiederò se l’hai sentito anche tu», disse eccitato Leo, «ti chiedo se vuoi scoprire che COSA c’è dentro». Non stava scherzando purtroppo, mi guardò negli occhi con un ghigno determinato. Sapevo che aveva già deciso per entrambi, infatti, non aspettò la mia risposta, ma cominciò a tirarmi più vicino all’entrata, una porta di legno e lamiera.

Io stavo in apnea sia per il fetore sia per il panico. Leo si tappò il naso e mi guardò mimando il gesto di vomitare, ma non arretrò di un passo. Facevamo piano, da dentro non arrivava che calore fetido. Immaginai che la puzza avesse un colore e per un attimo vidi noi due avvolti da una densa nube di vapore verde acido, forse perché mi veniva davvero da vomitare. Poi ci fu un basso ruggito dall’interno che ci pietrificò.

«La pantera!» sussurrai.

«Forse» rispose poco convinto Leo. Fece un altro passo tirandomi la camicia, io non mi spostai finché il cotone non fu più elastico. Leo mi diede uno strattone e così scesi più di quanto avrei voluto, finendo contro la porta malandata, a braccia dritte per non sbatterci con la faccia. Feci un gran rumore e indietreggiai così velocemente che nemmeno un colibrì in volo avrebbe potuto eguagliarmi. Leo invece ne fu entusiasta.

«Fantastico, vediamo che succede!» disse.

«Ma sei scemo!» cercai di sussurrare benché fossi fuori di me. «Se esce la pantera che si fa?», ero un fascio di nervi tesi e sudavo ovunque, «la fermi con l’ipnosi?».

In quel momento avrei offerto Leo agli alieni nemici per i loro esperimenti! Lui mi studiò quasi compiaciuto e si avvicinò di nuovo. «Pazzo!» gli sibilai alle spalle, «ecco quello che sei, completamente pazzo, io me ne vado!». Lo dissi ma non lo feci, non mossi un passo perché il mio sguardo era incollato alla nuca del mio amico di sempre, che aveva deciso di voler morire proprio quel giorno, e passavo a fissare la porta, la più malandata di tutte le porte che avessi mai visto. Ancora chiusa.

«BESTIA!» gridò Leo con tutta la voce che aveva in corpo. Io trasalii e mi sentii mancare le gambe, infatti, caddi seduto come un baccalà. Il cuore mi fece proprio male, lo giuro. «È la fine» mi dissi.

Ero stordito dallo spavento ma fui sorpreso che da dentro non giungesse alcun rumore per risposta, il grido non aveva provocato che il mio sussulto. La porta era ancora chiusa e quel folle del mio amico si stava avvicinando con la chiara intenzione di aprirla.

Mi venne in mente un tizio che per giorni aveva dormito nel parcheggio del supermercato, proprio davanti all’ingresso. Da quando era arrivato, il custode faceva più ronde ogni notte, forse credeva anche lui alla leggenda. Poi, un mattino, non era più al solito posto. Sparì. Alcuni dissero che se ne era andato com’era venuto. In quel momento ho sperato che ci fosse lui, là dentro. Ragionando, nessuno avrebbe resistito a lungo con quel tanfo e non avrebbe nemmeno ruggito a quel modo, ma ci sperai lo stesso.

Leo alzò una gamba e, prima che potessi fermarlo, sferrò un colpo col piede. La porta si aprì solo un po’, si era bloccata con qualcosa. Una zaffata terribile ci bruciò le narici e anche Leo balzò indietro come un gatto. Poi si tappò il naso e tornò sui suoi passi. Io dovetti allontanarmi e a quel punto vomitai davvero. Quando mi girai Leo non c’era più. La porta era quasi tutta aperta. Dentro era nero, non vedevo nulla. Non mi sentivo per niente bene, avevo lo stomaco in gola, mi bruciavano gli occhi e quello stupido si era ficcato nella bocca della bestia. Barcollai verso la soglia, non potevo restare a guardare. Mentre scendevo, vidi dei bagliori provenire da dentro e, un attimo prima che varcassi l’entrata, uscì Leo con la mano davanti alla bocca che mi spinse via per passare.

«Diamine, si muore dalla puzza!», disse tirandomi di lato come un fantoccio, scostandosi dalla porta.

«Che cosa hai visto, cosa c’è?», la curiosità a questo punto mi destò.

«Non si vede un cavolo, ho acceso il cellulare ma ha illuminato solo stracci e rifiuti, però sono dovuto uscire perché il tanfo è fortissimo e ci saranno quaranta gradi là dentro!».

«Io ho vomitato». Non c’entrava niente ma stavo ancora male.

«Bravo!», disse dandomi una pacca sulla spalla, «sei già a posto, entriamo insieme stavolta», disse «prendi una bella boccata d’aria» e mi tirò dentro.

Se qualcuno mi chiedesse di descrivere l’Inferno, credo che lo immaginerei proprio così: caldissimo, puzzolente e in totale tenebra. Non vedevo nemmeno i miei piedi. “Per essere una baracca è ben sigillata” pensai, ma non osavo aprire la bocca là dentro.

«Accendi anche il tuo cellulare», mi strattonò Leo, «qui non si vede niente!».

Non si vedeva proprio niente, era vero, ma avvertivo che quel calore era tipo…vivo. Qualcosa doveva essersi rintanato da qualche parte lì dentro, e non riuscivo più a muovermi. Nel silenzio dei nostri respiri faticosi, contro il tanfo, io sentivo nitidamente un’altra presenza. Il raggio di luce del cellulare di Leo saettava e non illuminava nulla di distinto. Il mio era puntato a terra e quello che vedevo erano resti di qualche animale, ossa pulitissime e bianche.

«Oh, che hai visto? Non c’è un accidenti, solo tanta spazzatura», si spazientì Leo. Intanto si scostò un po’ da me. Io continuai a osservare il reperto che avevo appena scoperto, spostai la luce lentamente e vidi più mucchi di ossa.

«Un ratto sarebbe troppo piccolo», dissi, riflettendo a voce alta.

«Che dici?» Leo tornò accanto a me e avvertii un fremito, uno spostamento d’aria dall’altra parte, troppo vicino, che mi fece scattare fuori. Leo mi seguì come un razzo.

«Insomma, mi hai messo paura, ma che fai?», mi chiese Leo, stavolta meno spavaldo.

«Non lo so, per terra ci sono delle ossa» spiegai, «non sono carcasse di animali morti…da soli, sono troppo pulite e poi sono…poco piccole». Ero ancora confuso.

«Poco piccole?» ripeté, «io non le ho viste, vuoi dire che sono grandi?  Non ti capisco diamine!» mi gridò in faccia.

«Stavo pensando a qualche animale morto lì, tipo i ratti o dei gatti, insomma, animali che girano qui intorno, poi ho pensato che se quelle sono delle costole non possono essere di topo, sono troppo lunghe».

«Ma che ne sai tu di come sono fatte le costole, ora vado a vedere», disse e rientrò. Io avrei voluto avvertirlo che non c’erano solo quelle, che c’era ancora qualcosa di vivo lì dentro, ma non mi uscì la voce e dovetti seguirlo, percorso da quel genere di brividi che avvertono del pericolo. Non avevo altra scelta e mi ficcai nella tana. Entrai in punta di piedi. Leo era davanti a me, vedevo la schiena.

«Leo…» sussurrai. Non mi rispose e non si girò. «Leo…andiamocene».

«È qui» disse.

Mi sporsi dalla sua spalla e vidi nitidamente quegli occhi fluorescenti che ci puntavano e i denti aguzzi che incorniciavano delle fauci spalancate. Sentivo benissimo il suo rantolo. Leo era bloccato e dietro di lui mi sentivo abbastanza protetto da cogliere ogni movimento, pronto a tirarmelo via prima che la bestia ci azzannasse. Fu così che avvertii un secondo respiro dietro di me, che si spostava di lato, verso la bestia. Provai ad aguzzare lo sguardo in quel buio ma non riuscii a scorgere nulla. Sentii i passi che spostavano le ossa per terra, dovevano essercene molte in fondo alla baracca. Improvvisamente la bestia fece un balzo in avanti e capii che non sarei mai riuscito a scappare tirandomi dietro Leo, che ormai sembrava una statua.

Vidi benissimo quel muso minaccioso. Aveva grandi occhi gialli, dei denti aguzzi che sporgevano da labbra screpolate, la pelle scura ma quasi priva di peli, che si confondeva con il buio. Riuscivo a scorgere l’orrenda faccia e non poteva essere umana.

Improvvisamente allungò verso di noi delle lunghe braccia pelose. Non erano proprio zampe ma sembravano mani con artigli lunghi e neri. Da acquattato in basso com’era, balzò in avanti come un felino mentre noi restammo immobili come vittime sacrificali, il terrore ci aveva congelato.

Avrei voluto chiudere gli occhi per non vedere la mia imminente morte ma non ci riuscii. Vidi le sue zampe raggiungere Leo quando qualcosa di enorme si frappose. Una massa nera e spelacchiata coprì l’impatto. Ci spostò indietro, verso l’uscita. Noi ci scuotemmo e fummo pronti alla fuga. Finalmente stavamo correndo via. Mi girai solo un istante e riuscii a vedere una faccia rugosa, uguale a quella bestia che stava per aggredirci, ma più grande. Fece un ruggito che ci impallidì, ma fu come una forte spinta per correre più veloci.

Udivo ancora lo scalpitare che proveniva dalla baracca. Quel mostro avrebbe ancora voluto raggiungerci, ma noi eravamo volati già in sella alla bici. Quell’altro enorme lo stava sicuramente trattenendo, ma con fatica.

Prima di riuscire a trovare i pedali sbirciai in basso, verso la baracca. La porta era di nuovo chiusa.

«Mostri!» sibilò Leo e furono le ultime parole che abbia mai detto su questa faccenda.

Non ci fu bisogno di promettere nessun segreto, sapevamo che nessuno ci avrebbe creduto.

Il cane scomparso quindi non credo che lo ritroveranno. Quelle creature mostruose sono pericolose, sanno nascondersi bene e vivono qui. Gli animali, di qualsiasi razza, non hanno scampo contro quei predatori.

Eppure qualcosa mi dice che non devo temere per me stesso. Certo, non esco mai da solo di notte, e a volte mi è anche parso di sentirli, nei fruscii di qualche siepe, però non credo che mi farebbero mai del male. Forse.